Crescere è complicato per tutti, ma crescere in una casa dove le emozioni erano trattate come ospiti indesiderati lascia il segno. E no, non stiamo parlando di genitori cattivi da film dell’orrore. Parliamo di mamme e papà che magari c’erano fisicamente, ma emotivamente erano su un altro pianeta. La teoria dell’attaccamento di Bowlby, sviluppata negli anni Sessanta, ci dice una cosa fondamentale: il modo in cui i nostri bisogni emotivi vengono accolti da piccoli crea una specie di mappa mentale che ci portiamo dietro per tutta la vita. Se quella mappa dice “sei degno di amore” e “gli altri sono affidabili”, bingo. Ma se dice “non vali abbastanza” e “meglio non fidarsi di nessuno”? Benvenuto in un percorso a ostacoli emotivo che nessuno ti ha chiesto di fare.
Studi come quelli di Ainsworth negli anni Settanta hanno mostrato che i bambini sviluppano stili di attaccamento diversi in base a quanto i genitori rispondono ai loro bisogni. E indovina un po’? Quegli stili ce li teniamo stretti anche da grandi, come un brutto maglione di Natale che non riesci a buttare. Quello che segue non è una diagnosi clinica, è più una chiacchierata onesta su sei comportamenti che molti psicologi osservano in chi è cresciuto con genitori emotivamente assenti o distanti.
Le tue emozioni sono come una lingua straniera che non hai mai imparato
Ti è mai capitato di sentirti male ma di non riuscire a capire esattamente cosa provi? O di esplodere dal nulla dopo settimane in cui sembrava tutto okay? Quando cresci in una famiglia dove piangere era “da deboli”, arrabbiarsi era “essere cattivi” e la tristezza era “un’esagerazione”, il tuo cervello impara una lezione terribile: le emozioni sono pericolose. Meglio spegnerle. Il problema? Non puoi davvero spegnerle. Puoi solo smettere di capire cosa significano.
La ricerca ha dato un nome a questo fenomeno: alessitimia, ovvero l’incapacità di identificare e descrivere le proprie emozioni. Studi hanno confermato che questa difficoltà è spesso legata a esperienze di attaccamento insicuro e a contesti familiari che invalidavano sistematicamente le emozioni dei bambini. Il risultato da adulti? Sai che qualcosa non va, ma non hai le parole per dirlo. E quando non hai le parole, è quasi impossibile chiedere aiuto o spiegare agli altri cosa ti succede.
Da bambino, quando nessuno ti aiutava a dare un nome a quello che provavi, quando le tue emozioni venivano ignorate o criticate, hai imparato una strategia: staccare la spina. La ricerca ha descritto come la mancata sintonizzazione emotiva dei genitori possa ostacolare lo sviluppo dei circuiti cerebrali che regolano le emozioni. In pratica, se nessuno ti insegna a riconoscere cosa provi, non impari mai davvero a farlo. Funzionava quando eri piccolo e vulnerabile. Oggi? Ti rende un mistero anche a te stesso.
Hai una fame di approvazione che non si sazia mai
Sei quello che prende sempre ottimi voti, che lavora fino alle undici di sera, che non dice mai di no anche quando è distrutto? Quello che ha bisogno di sentirsi dire “bravo” per sapere che va tutto bene? Forse stai ancora cercando di meritarti l’affetto che da bambino sembrava arrivare solo quando eri perfetto.
Gli studi hanno mostrato un legame chiaro tra perfezionismo cronico e stili genitoriali che legano l’affetto alle prestazioni. Quando l’amore è condizionato a quanto sei bravo, a quanto sei ubbidiente, a quanto fai felici gli altri, impari che il tuo valore dipende da quello che fai, non da chi sei. E qui parte il casino. Da adulto vivi in una corsa infinita. Ogni successo dura cinque minuti, poi torna quella vocina: “Non basta. Devi fare di più”.
Sei diventato il “bravo bambino” che non dava mai problemi, che faceva tutto giusto, che rendeva orgogliosi mamma e papà. Il problema? Quel bambino è ancora lì dentro, terrorizzato all’idea di deludere qualcuno. Anche quando qualcuno è il tuo capo, il tuo partner, o perfino uno sconosciuto su internet. La ricerca ha evidenziato come il perfezionismo renda praticamente impossibile provare soddisfazione autentica. Sei sempre un passo avanti al presente, sempre concentrato su cosa manca, mai su cosa hai già.
Non ho bisogno di nessuno, davvero?
Questa è la corazza preferita di chi è cresciuto imparando che chiedere aiuto è inutile. “Faccio tutto da solo”, “Preferisco non dover contare su nessuno”, “Tanto alla fine gli altri deludono sempre”. Frasi che suonano forti, indipendenti, quasi eroiche. Ma sotto? C’è solo un bambino che ha smesso di chiamare perché tanto nessuno arrivava.
In termini di teoria dell’attaccamento, questo è lo stile evitante. Gli studi hanno descritto persone che minimizzano il bisogno degli altri e enfatizzano l’autosufficienza come strategia difensiva. Questo pattern affonda le radici in infanzie dove i bisogni di conforto venivano costantemente ignorati o ridicolizzati. Smetti di chiedere non perché non ne hai bisogno, ma perché hai imparato che chiedere fa solo più male.
Da fuori sembri invincibile. Da dentro, però, stai portando un carico che nessuno dovrebbe portare da solo. Non deleghi, non ti confidi, non permetti a nessuno di vederti davvero vulnerabile. Perché vulnerabilità significa rischio. E tu di rischi ne hai presi abbastanza quando eri piccolo e indifeso. Il problema è che l’intimità vera richiede vulnerabilità. E se continui a tenere tutti a distanza, finisci per sentirti solo anche quando sei circondato da gente.
Sei su un’altalena emotiva che non si ferma mai
Questo è il comportamento più confuso di tutti. Ti getti nelle relazioni come se fossero l’ancora di salvezza, idealizzi il partner, hai bisogno di rassicurazioni continue. Ma poi, appena l’altro si avvicina troppo? Scappi. Ti chiudi. Saboti tutto. E quando l’altro si allontana, torni a inseguire disperatamente.
I ricercatori hanno descritto l’attaccamento disorganizzato, il più complesso e contraddittorio. Questo schema si sviluppa in bambini con genitori emotivamente imprevedibili: a volte caldi e disponibili, altre volte distanti o addirittura spaventanti. Il cervello del bambino va in tilt. “Posso fidarmi? Non posso fidarmi? Mi vuole bene? Mi abbandonerà?”. E quella confusione diventa il copione delle tue relazioni da adulto.
Hai una fame di amore che sembra infinita, ma anche un terrore profondo di essere abbandonato o ferito. Così metti alla prova il partner, crei drammi, sparisci e riappari. Non per cattiveria, ma perché è l’unico copione che conosci. Gli studi mostrano che questo pattern porta a oscillazioni dolorose tra ipervicinanza e distacco. Queste persone spesso descrivono le proprie relazioni come “montagne russe”. Ed è esattamente così. Estenuante per tutti.
Hai mille conoscenti ma zero persone di cui ti fidi davvero
Sei simpatico, socievole, magari hai un sacco di follower o di numeri in rubrica. Ma se ti chiedessi: “Chi chiameresti alle tre di notte se stessi male?”, la lista sarebbe cortissima. O vuota.
La difficoltà a fidarsi è uno dei lasciti più duri della carenza affettiva. Se i tuoi primi modelli di amore erano inaffidabili, promesse non mantenute, “ti voglio bene” detto ma non dimostrato, bisogni ignorati, hai imparato che le parole sono aria e che anche le persone più vicine possono ferirti. Le ricerche mostrano che trascuratezza emotiva e abuso infantile sono fortemente associati a problemi di fiducia nelle relazioni adulte.
Dall’esterno sembri freddo, distaccato, magari snob. Ma dentro c’è solo paura. Paura di aprirsi e scoprire che anche questa volta l’altro se ne andrà, ti deluderà, ti lascerà solo. Così resti in superficie. Sempre educato, sempre gentile, ma mai davvero presente. Questo viene descritto come “autoprotezione basata su modelli interni che vedono gli altri come potenzialmente pericolosi”. Funziona, nel senso che ti protegge dal dolore. Ma ti protegge anche dalla gioia, dalla connessione, da tutto quello che rende le relazioni significative.
Controllo totale o caos totale, senza vie di mezzo
Alcune persone diventano maniache del controllo: liste infinite, piani B e C per ogni scenario, zero improvvisazione. Altre fanno il contrario: sabotano sistematicamente ogni cosa bella che gli capita. Due facce della stessa medaglia.
Gli studi hanno analizzato come traumi evolutivi e ambienti familiari caotici portino a strategie compensatorie rigide. Il controllo ossessivo serve a ricreare la sicurezza che non c’era: “Se tengo tutto sotto controllo, non mi faranno male”. L’autosabotaggio, invece, è una profezia che si autoavvera: “Tanto finisce male, meglio che lo decido io quando”.
Le ricerche sugli schemi maladattivi precoci descrivono come queste strategie diventino automatiche, quasi invisibili a chi le mette in atto. Ma sono estenuanti. E alla lunga creano esattamente quello che temono: isolamento, fallimenti, conferma che il mondo è pericoloso. Riconoscere questi automatismi è già un primo passo verso il cambiamento. Perché finché pensi “sono fatto così”, sei bloccato. Quando capisci “è una strategia che ho imparato”, inizi a vedere che si può imparare altro.
Si può cambiare o sei condannato a vita?
Buone notizie: non sei condannato. La ricerca sulla plasticità cerebrale ci dice che il cervello può cambiare, creare nuovi circuiti, imparare nuovi pattern. Anche da adulti. Gli studi sull’attaccamento mostrano che alcune persone passano da schemi insicuri a pattern più sicuri attraverso quello che viene chiamato “attaccamento guadagnato”. Relazioni affidabili, con partner, amici o terapeuti, possono letteralmente riscrivere le tue mappe interne.
I tuoi genitori probabilmente hanno fatto del loro meglio con quello che avevano. Studi intergenerazionali mostrano che schemi insicuri si trasmettono di generazione in generazione, spesso senza consapevolezza. Molti genitori anaffettivi erano a loro volta cresciuti senza affetto. Capire questo non cancella il dolore. Ma può aiutarti a non portarti dietro rancore per tutta la vita. E soprattutto può aiutarti a spezzare la catena: tu puoi scegliere di non ripetere quegli schemi.
Riconoscere questi comportamenti in te stesso non significa essere “rotto”. Significa semplicemente che hai imparato a sopravvivere in un ambiente emotivamente difficile. E quelle strategie, che da bambino ti hanno salvato, oggi ti limitano. La ricerca sulla self-compassion mostra che essere gentili con se stessi, invece che giudicanti, è associato a minore ansia, meno depressione e maggiore benessere psicologico.
Se questi pattern stanno condizionando pesantemente la tua vita, considera l’idea di parlare con un professionista. Non c’è niente di sbagliato nel chiedere aiuto. Anzi, è probabilmente la cosa più coraggiosa che puoi fare. Gli studi mostrano che cambiamenti negli stili di attaccamento sono possibili nel corso della vita adulta, specialmente con il supporto di relazioni stabili o di psicoterapia efficace. Non sei condannato a ripetere il passato. Ogni volta che scegli di guardare dentro, di chiedere aiuto, di fidarti un po’ di più, stai già cambiando. E quel cambiamento, per quanto piccolo, è reale.
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