Drive My Car di Ryûsuke Hamaguchi

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Drive My Car è un film di Ryûsuke Hamaguchi tratto dall’omonimo romanzo di Haruki Murakami; uscì in Italia il 23 settembre 2021 incassando € 185.000.

Yusuke (interpretato da Hidetoshi Nishijima) e Oto (Reika Kirishima) sono marito e moglie nonchè i protagonisti iniziali. Dopo una lunghissima prefazione e i ritardati titoli di testa, la narrazione si sposta su un binomio differente: accanto all’uomo appare la giovane Misaki (Toko Miura) che funge da suo autista personale.

L’incipit irrompe senza remore nell’intimità di coppia. Dopo un rapporto sessuale, Oto (la moglie) inventa un racconto e lo snocciola al marito Yusuke il quale ascolta con tutta la tenerezza di cui è capace. Sono sposati da molti anni ed hanno, a fatica, superato un forte trauma famigliare come la perdita di una figlia. Il lungo prologo ci permette di familiarizzare con la coppia e di entrare in sintonia col loro amore per il teatro di prosa. Lui è sia regista che attore mentre Oto è una sceneggiatrice. Nello specifico, assistiamo alla preparazione dell’allestimento di Zio Vanja (il dramma di Anton Čechov). Lo svolgimento del film procederà in parallelo con il racconto teatrale e con la preparazione della messinscena medesima in un confronto letterario leggibile su più livelli.
La seconda parte della vicenda prende forma dopo un salto temporale di due anni. L’uomo si è trasferito a Hiroshima per il primo passo necessario all’allestimento: il casting. Ai provini si presentano attori e attrici di varie nazionalità e differenti idiomi. Yusuke decide così di attuare un progetto del tutto originale: metterà in scena uno Zio Vanja recitato contemporaneamente in lingue differenti e varie forme di comunicazione. Per gli spostamenti del regista viene messa a disposizione una giovane autista che si prenderà cura di guidare l’auto di Yusuke per le strade di Hiroshima. Dopo una forte iniziale perplessità dell’uomo, il rapporto tra il passeggero e l’autista diviene via via più intenso ed evolve in profondità, scoprendo fantasmi del passato che li accomuna entrambi. Misaki è di poche parole, mite e discreta; guida l’auto di Yusuke con meticolosità e precisione. Tra lunghi silenzi e cenni di fattiva collaborazione, i due instaurano un rapporto confidenziale ma non strettamente sentimentale.
Dopo un prologo di presentazione famigliare e un blocco centrale di approfondimento para-professionale, Drive My Car ci conduce ad una terza fase: un epilogo di catarsi che, per ovvie ragioni, non approfondiremo.

Il tema di fondo di questo lungo film (178 minuti) è senz’altro il linguaggio, o meglio, le varie forme di comunicazione, verbali e non. Il variegato “melting pot” linguistico e culturale dello spettacolo teatrale, di cui assistiamo alle prove, rappresenta la possibilità di comunicare attraverso le parole ma anche oltrepassando le medesime. La comunicazione può avvenire attraverso i gesti, le emozioni, la condivisione dello spazio e “degli spazi” sia ambientali che interiori. Lo stesso rapporto tra Yusuke e Misaki (passeggero e autista) si snoda nell’abitacolo dell’auto rossa nel tempo che occorre per percorrere le strade di Hiroshima.

I due protagonisti comunicano con (poche) parole e (molte) condivisioni di emozioni ed esperienze. Lo sguardo della cinepresa si sofferma spesso sul nastro d’asfalto che viene percorso e sulle numerose e lunghe gallerie attraversate, connotando la storia di un significato più recondito di quanto possa trasparire dalle “povere” parole.

Le immagini vanno oltre la verbalizzazione e compongono una più elaborata forma di espressione. Il fatto stesso di oltrepassare i tunnel autostradali ci fornisce una chiara visione metaforica del percorso che i due stanno affrontando: uscire dai traumi del passato per cercare di riappropriarsi della luce esterna, vincendo i sensi di colpa ed elaborando i rispettivi lutti, ovvero, cercare di farlo.

La delicatezza dei toni usati dalla meticolosa sceneggiatura addomestica i rapporti umani dei protagonisti e scopre con gradualità le carte in tavola fino ad arrivare dolcemente in luoghi non del tutto attesi. Non tutte le verbalizzazioni sono immediatamente comprensibili (o meglio: non è ben chiaro dove intendano arrivare) e ciò rende criptico e misterioso il racconto. Questo rappresenta l’unico limite, ma ne è anche un pregio, di un film complesso e profondo.

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