Il vero Michael Peterson è tuttora in carcere in Inghilterra. Nato in una famiglia ordinaria, manifesta fin da giovane un’indole violenta ed aggressiva. Nel 1974, poco più che vent’enne, tenta una rapina armato di fucile ma viene preso e condannato a sette anni di prigione. A causa della sua intollerabile ed estrema violenza non uscirà più dagli istituti penitenziari inglesi per molto tempo ancora. Sui trentacinque anni già scontati fino ad ora, ne ha trascorsi una trentina in perfetto isolamento. Nonostante questo portentoso curriculum vitae, Nicolas Winding Refn (regista Danese autore anche di Drive) ne dipinge un affresco che affascina. Il desiderio di Peterson era quello di essere chiamato Bronson in memoria di quel Charles che, come giustiziere della notte, aveva spopolato al cinema negli anni settanta. Immaginando il protagonista sulla scena di un teatro, ne viene quasi enunciato un manifesto psico-sociologico. Il film è strutturato come un insieme di quadri apparentemente separati. Il corpo spesso nudo del bravissimo Tom Hardy incarna un Bronson muscolosissimo, dalla testa liscia come una palla da bigliardo, baffi d’ordinanza ed uno sguardo duro di sfida molto simile a quello di Daniel Day-Lewis ne Il Petroliere o Gangs of New York. Scopriamo ben presto che il Bronson-pensiero non è frutto di una mente distorta; la sua lucida violenza è generata da una personalità notevole. Nel violenzario di Bronson ci sono pugni, sputi, morsi, aggressioni ma non omicidi. Solo un pedofilo si è meritato un odio talmente profondo da essere stato giudicato da Peterson “degno di essere ucciso”. Il film non è una biografia in senso stretto. E’ composto da episodi-fotografia montati con un’alternanza tra scene teatrali e carcerarie. Un esperimento artistico che emana un fascino tutto particolare. In fin dei conti Nicolas Winding Refn ha esaudito il sogno di Michael Peterson che dichiarò I always wanted to be famous ovvero: “Ho sempre voluto essere famoso”. Missione compiuta.
Voto: 6+