Bohemian Rhapsody: la recensione
Ad un cinefilo può capitare di attendere con trepidazione l’uscita di un film e di prenotare per tempo la poltrona migliore della sala migliore della sua città per il primo spettacolo del primo giorno di programmazione. Magari ha letto in anteprima le tiepide critiche della stampa ed ha, quindi, un’aspettativa bassa. Può capitare anche che, ai titoli di coda, tutto sia cambiato; che scopra di avere gli occhi lucidi e nella mente il proposito di tornare al più presto in sala per una seconda visione. Non è fantasia, ma esattamente ciò che è successo a chi vi scrive. Bohemian Rhapsody ha subito una lavorazione molto tribolata. Lunghi anni di annunci e smentite, continui cambi di sceneggiatura e di maestranze. Un percorso ad ostacoli che è finalmente giunto a destinazione. Il risultato è potentissimo. La critica è divisa ma anche il pubblico non è da meno. Durante gli anni ’70 e ’80 I Queen e Freddie Mercury suscitavano forti reazioni. O li amavi o non li sopportavi. Era impossibile restarne indifferenti. Il film ricalca le stesse orme. Rami Malek è Freddie Mercury, Ben Hardy è Roger Taylor, Joseph Mazzello (ricordate il piccolo Tim di Jurassic Park?) è John Deacon e Gwilym Lee è Brian May. Tutti insieme interpretano i Queen e sono del tutto credibili. Una famiglia rock. Come ogni biopic che si rispetti, anche Bohemian Rhapsody inizia con gli esordi del gruppo ma non finisce con la morte del loro leader bensì col clamoroso concerto del 13 luglio 1985: il Live Aid. Tutti gli eccessi di Farrokh Bulsara (nome di battesimo di Freddie Mercury) e la sua ambigua sessualità sono trattati dal regista Bryan Singer con dovizia di particolari ma senza irrealistiche esasperazioni filmiche. La somiglianza degli attori ai personaggi e la presenza dei veri Brian May e Roger Taylor tra i produttori contribuiscono ad avvolgere l’intero film con un’aura di iper-realismo che incanta.
L’idea di assistere alla nascita di alcuni capisaldi del rock dei Queen fa venire i brividi. Tra un episodio e l’altro di vita vissuta (appieno) da Mercury, trovano spazio i passaggi fondamentali della carriera artistica del gruppo. Interessantissimi gli inserti dedicati alle genesi di brani come We will rock you, Bohemian Rhapsody e Another one bites the dust anche se il fulcro rimane la rappresentazione di ciò che non è mai stato apertamente svelato: la vita privata di uno tra i più famosi e controversi frontman di gruppi rock. Mai come in questo caso i termini “genio e sregolatezza” sono i più appropriati. Una sottile soddisfazione che un recensore non può mai togliersi è quella di svelare il finale di un film. In questo caso si può fare un’eccezione. Bryan Singer non ha scelto di rappresentare il funerale di Mercury ma ha, intelligentemente, deciso di celebrarne il mito con un concerto che tutto il mondo vide in diretta TV: il Live Aid di Bob Geldof. Un finale trionfante che entusiasma. Quasi certamente gli spettatori a cui la musica dei Queen non piace, saranno in totale disaccordo con queste parole. Freddie Mercury non era un mediocre e non è mediocre nemmeno il film che ne celebra la vita (privata ed artistica). La conseguenza è drastica: a qualcuno piacerà molto mentre ad altri darà fastidio. Il coraggio di tentare un approccio alla biografia di un personaggio tanto complesso è comunque apprezzabile. Il sottoscritto ne è rimasto piacevolmente colpito. L’esordio nelle sale italiane è stato un successo. Il passaparola darà l’implacabile imprimatur in un senso o nell’altro.
VOTO: 8
Ndr: il film è stato premiato da una grande presenza di spettatori ed è al top dei film più visti del 2018. Trovi il dettaglio QUI.